Treccani Emporium: Un racconto dell’orrore per Halloween

Halloween si avvicina!
Treccani Emporium
Linea Definizione
Per festeggiare Halloween quest’anno su Emporium trovate la spedizione gratuita su tutta la linea Definizione, fino al 1° novembre. Intanto, per entrare nel giusto spirito, vi proponiamo un classico della letteratura fantastica e horror: il racconto Morella di Edgar Allan Poe (nella traduzione di Delfino Cinelli). Molte opere dello scrittore inglese non sono più coperte da diritto d’autore, e si possono trovare online distribuite con licenza CC.
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Morella

di Edgar Allan Poe
Se stesso, soltanto da se stesso,
UNO eternamente e singolo.
Platone, Sympos
Per la mia amica Morella, provavo un’affezione profonda, ma singolarissima. Capitato per caso, molti anni or sono, a contatto di lei, l’anima mia, dal primo momento, arse di ardori che non aveva mai conosciuto; ma non erano quelli di Eros, e amara e tormentosa riusciva al mio spirito la crescente convinzione di non potere in alcun modo definire il loro insolito significato o regolare la loro vaga intensità. Tuttavia c’incontrammo; il destino ci unì davanti all’altare; e io non le parlai mai di passione, né ebbi pensieri d’amore. Lei però sfuggiva la società; e, attaccandosi soltanto a me, mi rendeva felice. È felicità lo stupore, felicità sognare.
Morella era profondamente erudita. Come spero dimostrare, i suoi talenti non erano di ordine comune, la potenza della sua mente era formidabile. Io me ne accorsi e in molte materie divenni il suo scolaro. Tuttavia ben presto mi avvidi che Morella, forse perché educata a Presburgo, mi poneva davanti molti di quegli scritti mistici che vengono in generale considerati come la zavorra della più antica letteratura tedesca. Questi, per ragioni che non potevo immaginare, formavano il suo studio costante e favorito; e se col tempo divennero anche il mio, deve venire attribuito alla semplice ma efficace influenza dell’abitudine e dell’esempio.
Quaderno
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Pagine: 80 pagine bianche
Dimensioni: 15 x 21 cm
In tutto questo, se non sbaglio, la mia ragione non entrava per nulla. Le mie convinzioni, se ben ricordo, non erano affatto basate sull’ideale, e ammenoché non m’inganni di molto non si sarebbe potuto scoprire nelle mie azioni e nei miei pensieri alcun riflesso del misticismo delle mie letture. Persuaso di ciò, mi abbandonai implicitamente alla guida di mia moglie ed entrai con cuore imperturbato nel labirinto dei suoi studi. E allora – allora, quando, immergendomi nella lettura di pagine proibite, io sentivo uno spirito proibito destarsi in me, Morella veniva a porre la sua gelida mano sulla mia, e raccoglieva dalle ceneri di una filosofia morta qualche grave e singolare parola, il cui strano significato si scolpiva nella mia memoria. E allora, per ore e ore, mi trattenevo accanto a lei ascoltando la musica della sua voce, sino a quando quella melodia si coloriva di terrore, e un’ombra cadeva sull’anima mia, e io diventavo pallido, e interiormente rabbrividivo a quegli accenti ultraterreni. E così la gioia all’improvviso svaniva nell’orrore, e il più bello si cambiava nel più orribile, allo stesso modo che Hinnon diventò la Gehenna.
Non è necessario stabilire il carattere preciso dei temi, che, sorgendo dai volumi di cui ho parlato, costituirono per tanto tempo l’unico terreno di conversazione fra Morella e me. Quanti sono addentro in quella che potrebbe chiamarsi la morale teologica riusciranno a immaginarseli facilmente; gli ignoranti non arriverebbero a capirne mai abbastanza, in ogni caso. Lo strano panteismo di Fichte, la palingenesi modificata dei pitagorici, e soprattutto la dottrina dell’identità come ci viene presentata da Schelling, erano generalmente i punti che presentavano maggiore attrattiva alla immaginativa Morella. Locke qui sembra, con giusto criterio, asserire che codesta identità, così detta personale, consiste nella permanenza dell’essere razionale. Dato che per persona intendiamo una essenza intelligente che possiede la ragione, e dato che esiste una coscienza che accompagna sempre il pensiero, è questo appunto che ci fa essere tutti quello che chiamiamo noi stessi, e che ci mette in grado di distinguerci dagli altri esseri pensanti, che ci dà, insomma, la nostra identità personale. Ma il principium individuationis, la cognizione di quella identità che alla morte è o non è perduta per sempre, fu per me in ogni tempo un problema del più intenso interesse; non tanto per la natura inquietante e allettante delle sue conseguenze, quanto per il modo singolare e agitato col quale ne parlava Morella.
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Dimensioni: 50 x 70 cm
Ma, in verità, era giunto il tempo in cui il mistero dei modi di mia moglie mi opprimeva come un incantesimo. Non potevo più sopportare il contatto delle sue dita diafane, né il timbro profondo della sua parola musicale, né il lume dei suoi occhi malinconici. Ella capiva tutto ciò, ma non me ne faceva rimprovero; sembrava conscia della mia debolezza o pazzia e, sorridente, la chiamava destino. Sembrava anche conscia della causa, a me ignota, della graduale alienazione del mio affetto ma non ne dava segno, né alludeva alla sua natura. Tuttavia era donna, e deperiva di giorno in giorno. Col tempo una macchia rossa si fissò sulla sua guancia, e le vene azzurre della sua candida fronte si fecero più pronunciate; e per un istante la mia natura fu vinta dalla pietà, ma il momento dopo, incontrando lo sguardo dei suoi occhi pieni di significato, la mia anima si riempiva di malessere ed era presa dalla vertigine come colui che fissa lo sguardo in qualche lugubre e insondabile abisso.
Debbo dire che desideravo intensamente e ardentemente l’ora della morte di Morella? Così era; ma il suo spirito fragile restò attaccato al suo involucro mortale per lunghi giorni, per settimane e mesi penosi, finché i miei nervi torturati presero il sopravvento sulla ragione, e io, impaziente di ogni ritardo, mi lasciai andare, con un cuore di demone, a maledire i giorni, le ore e i minuti amari, che sembravano diventare più lunghi a mano a mano che la mite esistenza di lei declinava come le ombre al morire del giorno.
Ma una sera d’autunno, in cui i venti tacevano nei cieli, Morella mi volle al suo capezzale. Sulla terra si stendeva un velo di nebbia, un caldo riflesso sulle acque; dal firmamento doveva certo esser caduto un arcobaleno frammezzo all’opulento fogliame ottobrino della foresta.
 
«È il giorno dei giorni,» ella disse nel mentre mi avvicinavo «il giorno dei giorni per vivere o per morire. È un giorno di bellezza per i figli della terra e della vita, oh! ma anche più bello per le figlie del cielo e della morte!»

Io la baciai sulla fronte ed essa continuò:
«Sto per morire, tuttavia vivrò.»
«Morella!»
«I giorni nei quali tu avresti potuto amarmi, non sono mai stati; ma colei che abborristi in vita, adorerai morta.»
«Morella!»
«Ti ripeto che muoio. Ma ho meco un pegno di quell’affetto – ah! così poco! – che tu hai provato per me, per Morella. E quando il mio spirito s’involerà, vivrà la creatura – tua e mia – di Morella. Ma i giorni della tua vita saranno giorni d’affanno, quell’affanno che è la più duratura delle impressioni, come il cipresso è il più resistente degli alberi. Le ore della tua felicità sono passate; la gioia non si raccoglie due volte nella vita, come le rose di Pesto che fioriscono due volte all’anno. Tu non giocherai più col tempo il gioco dell’eroe di Teo; ma, poiché ignori il mirto e la vite, porterai dovunque con te sulla terra il tuo sudario, come il musulmano alla Mecca.»

«Morella!» gridai «Morella! Come sai tu questo?» Ma ella voltò via il viso sul guanciale, un tremito leggero le corse le membra e io non udii più la sua voce.

Però, com’ella aveva predetto, la sua creatura – alla quale aveva dato la vita morendo, e che non respirò sinché la madre non ebbe finito di respirare – la sua creatura, una bambina, visse. E crebbe meravigliosa di persona e d’intelletto, rassomigliando perfettamente a colei che era dipartita, e io l’amai di un amore più fervido di quel che non avrei creduto mai possibile provare per alcuna creatura terrestre.

Ma non trascorse molto tempo e l’orizzonte di quel puro affetto si oscurò e le nuvole dell’angoscia, dell’orrore e del dolore, lo percorsero. Ho già detto che la bambina cresceva meravigliosa di persona e d’intelligenza. Strano in verità era il rapido sviluppo del suo corpo, ma terribili, terribili erano i tumultuosi pensieri che si affollavano in me nell’assistere allo sviluppo del suo intelletto. E come poteva essere altrimenti quando giornalmente scoprivo, nelle concezioni della bambina, i poteri e le facoltà già adulte della donna? Quando lezioni di esperienza cadevano dalle sue labbra infantili? Quando di ora in ora vedevo rilucere nella sua ampia pupilla speculativa la saggezza e le passioni della maturità? Quando, dico, tutto questo divenne palese ai miei sensi atterriti – quando mi fu impossibile nasconderlo più a lungo all’anima mia, e negarlo alle mie facoltà che fremevano di doverlo accettare –, v’è da meravigliarsi, se sospetti di una natura terribile e inquietante si siano infiltrati nel mio spirito e se il mio pensiero sia ritornato con orrore agli strani racconti ed alle eccitanti teorie della sepolta Morella? Io toglievo alla curiosità del mondo un essere che il destino mi comandava di adorare, e nella severa clausura di casa mia vegliavo con ansia mortale su tutto ciò che riguardava la mia adorata.

Passavano gli anni, e nel contemplare giorno per giorno il suo volto santo, dolce ed eloquente, nel ponderare sullo svolgersi della sua forma, andavo scoprendo nuovi punti di rassomiglianza tra la figlia e la madre, la malinconica morta. E queste ombre prendevano sempre più consistenza e diventavano sempre più piene; definite, inquietanti e più orridamente terribili nel loro aspetto. Potevo sopportare che il sorriso di mia figlia rassomigliasse al sorriso di Morella; ma rabbrividivo alla troppo perfetta identità; potevo tollerare che gli occhi di mia figlia fossero uguali a quelli di Morella: ma troppo spesso penetravano negl’intimi recessi dell’anima mia con la stessa intensità e lo stesso significato inquietante di quelli di Morella. E nel contorno della sua fronte alta, nelle ondulazioni della sua capigliatura di seta e nelle dita diafane che vi si immergevano, nel tono grave e armonioso della sua parola e soprattutto – oh, soprattutto – nelle espressioni e nelle frasi proprie alla morta che rinascevano sulle labbra della vivente e adorata, io trovavo alimento per un pensiero e un orrore divorante; un verme che non voleva morire.

Passarono così due lustri della sua vita e mia figlia era ancora senza nome sulla terra. “Figlia mia” e “amore mio” erano gli appellativi che mi suggeriva il mio affetto di padre, e la rigida reclusione della sua esistenza escludeva ogni altra relazione. Il nome di Morella era morto con Morella al momento della sua morte. Alla figlia non avevo mai parlato della madre: sarebbe stato impossibile. In realtà nel breve periodo della sua esistenza non aveva ricevuto nessuna impressione del mondo esterno, all’infuori di quelle che avevano potuto presentarsi negli angusti limiti del suo ritiro. Col tempo, però, la cerimonia del battesimo apparve al mio spirito snervato e agitato, come un mezzo di liberazione dai terrori della mia sorte. Ma al fonte battesimale esitai sulla scelta di un nome. E sulle mie labbra vennero ad affollarsi epiteti di saggezza e di beltà, nomi dell’epoca antica e moderna, del mio paese e stranieri, nomi belli di buoni, di gentili e di felici. Chi fu a suggerirmi di disturbare la memoria della morta e sepolta? Qual demonio mi spinse a emettere il suono il cui solo ricordo bastava a far rifluire a torrenti il mio sangue dalle tempie al cuore? Quale spirito malvagio parlò dagli abissi dell’anima mia, quando, sotto le volte oscure nel silenzio della notte, io mormorai alle orecchie del ministro di Dio le sillabe: Morella? E quale essere più che demoniaco agitò convulsamente le fattezze della mia creatura e le coprì del pallore della morte, allorquando, trasalendo a quel suono appena audibile, essa alzò i suoi occhi vitrei dalla terra al cielo e cadendo riversa sulle pietre annerite della nostra tomba di famiglia, rispose: «Eccomi»?

Distinte, freddamente, tranquillamente distinte, penetrarono quelle sillabe nel mio orecchio, e, come piombo fuso, s’insinuarono sibilando nel mio cervello. Gli anni; gli anni possono passare, ma il ricordo di quell’ora non passerà mai! No, io non ignoravo i fiori e la vite, ma l’aconito e il cipresso stendevano le loro ombre su di me giorno e notte. E io perdetti la conoscenza del tempo e dei luoghi, e le stelle del mio destino disparvero dal cielo; e da allora la terra divenne tenebrosa e le sue immagini mi passarono accanto come ombre fuggevoli, e fra di loro non vedevo che Morella. I venti del cielo non sospiravano che un suono alle mie orecchie, e i flutti del mare sussurravano in eterno: Morella! Ma ella morì; la portai con le mie proprie mani alla tomba; e risi a lungo e amaramente quando non ritrovai più alcuna traccia della prima, nella fossa in cui deposi la seconda: Morella.
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