Capri è vista come il peggior incubo di ogni backpacker, il lato oscuro dello zaino in spalla. Certi viaggiatori temono di esaurire il proprio budget solo a pronunciarne il nome, e così anch’io prima di andarci. L’idea di scriverne una guida interamente dedicata mi poneva in una spiacevole e antipatica posizione nei confronti di un lavoro che già mi porta sufficienti frecciatine da parte degli amici, “che disgrazia eh, devi andare proprio a Capri!”. Insomma partivo con un evidente preconcetto per una destinazione che vedevo sì bella, ma che non consideravo l’equivalente nostrano della Persia, un piccolo Tibet al largo di Napoli o l’Isola di Pasqua del Mar Tirreno. Se avessi potuto vedermi in un ipotetico flash forward, qualche giorno dopo, boccheggiante e sudato a elemosinare una bottiglia d’acqua agli escursionisti del Sentiero dei Fortini, mi sarei pentito della mia superficialità. Scoprire che Capri non è Capri ha innescato in me, per proprietà transitiva, una sorta di crisi d’identità che ho compensato con una trance agonistica da viaggio mai provata prima, riducendomi a sognare la Pianura Padana come nemesi e a percorrere uno per uno tutti gli itinerari dell’isola, come se lavorassi per Google Street View anziché per Lonely Planet.
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